Riflessioni sulle cure palliative

Morire “fuori luogo” oggi: tra dolore e speranza : di Salvatore Natoli

 

All’interno del XXII congresso della SICP tenutosi il mese scorso a Sorrento, ho trovato ricco di spunti l’intervento di Salvatore Natoli, filosofo contemporaneo che si è spesse volte soffermato sul dolore e sulla sua esperienza.

La sua riflessione si è concentrata sul “ tempo che resta, una dimensione importante per i malati cronici, per cui la morte incombe a lungo e si ha una diminuzione dell’autonomia nella vita, e per i malati in fase terminale per cui la morte incombe come un’ombra. Ma qual è il senso ? Come ci si rapporta ad esso ?

In generale si osservano due tipi di reazioni : chi vuole “durare” e che prova affezione per la vita e piacere di esistere e chi vuole morire, per i quali prima si muore meglio è – secondo ricerche internazionali il desiderio di anticipare la morte è presente nel 30% dei pazienti ricoverati in hospice ndr.

Da quando il dolore è trattabile si è trasformato fin nella sua essenza e da sintomo è diventato malattia; la medicina che è molto potente nell’accompagnare alla morte è però impotente nella protezione alla vita…

Se i soggetti vogliono vivere o meno dipende dal tipo di relazione che hanno con la vita e non dipende dalla medicina, la quale anzi si fa spietata quando vuole far vivere chi non vuole più vivere….

La sedazione riduce il dolore vivo, ma lo trasforma da dolore del corpo in dolore mentale di fronte allo spettacolo della propria dissoluzione. Infatti è solo quando il dolore non è più vivo che diventa mentale, è solo allora che puoi “distrarti” dalla morte, perché non è più presente che ti ricorda il suo approssimarsi…

Il palliativista opera così : distrae. Il soggetto si distrae dalla propria morte attraendolo alla vita.. la vita è relazione.

Gli uomini non vogliono morire perché la vita vuole se e perché non si accetta che il mondo possa durare senza di noi e oltre di noi.

Se le relazioni durano allora il morente può invece pensare che valga la pena di continuare a vivere- fino alla morte.

La morte porta ai margini e mette “fuori luogo”. Solo se ti ricollochi nelle relazioni, allora la presenza degli affetti ti ri-dà luogo quando la malattia aveva posto fuori luogo.

I legami danno senso al “tempo che resta”…

La medicina palliativa deve andare oltre, deve creare le condizioni favorevoli perché si innestino nel tempo che resta i legami viventi.

Ovvio è che i palliativisti operino sui “preliminari” e non su i “fili destinali”.

Enecessario cioè lavorare perché intorno al morente si costruisca un tessuto di umanità che gli permetta di vivere il tempo che resta, seppur contraddittoriamente.